lunedì 19 settembre 2016

Fra le stelle

Avevo raggiunto la vetta. Dopo lunghi mesi di scalata, ce l’avevo finalmente fatta. Il momento a lungo sognato sulla Terra si era infine avverato. Stentavo a crederci, eppure ero lì, sulla cresta del Monte Olimpo.
Sotto di me, ovunque volgessi lo sguardo, c’era lui: immenso, alto tre volte l’Everest e con una superficie pari a quella dell’Italia, il vulcano si elevava dalla superficie marziana come un pianeta a sé stante, una penisola proiettata verso il gelido cosmo, più freddo, anche, dell’anidride carbonica ghiacciata che ne copriva la cima.
Non esultai subito. Osservai a lungo l’orizzonte, miracolosamente nitido quel giorno e sgombro dalle tempeste di sabbia che periodicamente squassano il Pianeta Rosso. Quindi, un po’ goffamente per via della tuta, sollevai le braccia in segno di trionfo. Nulla si mosse in quel mondo inanimato, e io mi sentii piuttosto ridicolo.
Durante quei mesi, non avevo fatto altro che confermare quanto una sfilza di robot prima di me aveva già scoperto, e in modo sicuramente più metodico e accurato, ovvero: fatta eccezione per qualche forma di vita microbiale, su Marte non c’era nulla per cui valesse la pena affrontare un viaggio così lungo.
Allora perché ero lì? Perché non c’è altro luogo dove andare, continuavo a ripetermi. Ben misera consolazione per uno che da bambino sognava di scoprire altre forme di vita intelligente, “di fare la storia”.
A proposito di storia.
Correva l’anno 2030. Surriscaldamento globale. Sovrappopolazione. Scarsità di risorse. Migrazioni di massa. Guerra, di un tipo mai visto prima, o forse visto già troppe volte.
In questo panorama desolante, le nazioni industrializzate preferivano spendere soldi per rinforzare i loro confini, contro cui si accalcavano milioni di profughi disperati. Come me, anche loro non avevano altro luogo dove andare...
Volgere lo sguardo alle stelle era diventato un lusso d’altri tempi. Il sistema solare più vicino, Alfa Centauri, distava “solo” 4,3 anni luce dalla Terra, ma la tecnologia necessaria per raggiungere quella velocità era di gran lunga più lontana.
Così si era deciso di mantenere la promessa fatta diversi anni prima, in un’epoca più ottimista: portare l’uomo su Marte. Volevano un nuovo Neil Armstrong, un nuovo sbarco sulla Luna. Chissà, forse avrebbe scoperto qualcosa di interessante, risollevando lo spirito della razza umana, elevandola verso nuove vette.
Fra tutti ero stato scelto io. Quoziente intellettivo superiore alla media, anche fra i miei colleghi, e fisico da atleta. Avevo trascorso gli ultimi dodici anni della mia vita preparandomi per quella missione. Avevo rinunciato ad avere una relazione stabile, trascurato le amicizie, perfino la mia famiglia. Credevo di essere un privilegiato. Solo in quel momento, in piedi sul punto più alto dell’intero sistema solare e assordato da quel silenzio straordinario, capii.
“Ho raggiunto la vetta dell’Olimpo alle ore 21:52 di Roma. Mattino incredibilmente terso.” Anni di preparazione, per dire una banalità? Non sapendo cos’altro dire, optai per il classico: “Houston, riesci a sentirmi?”.
Ma Houston non riusciva a sentirmi, questo lo sapevo bene. Il sistema di comunicazione che avrebbe dovuto tenermi in contatto con la Terra aveva smezzo di funzionare appena due giorni dopo il decollo. Avevo provato in tutti i modi, ma non c’era stato verso. Sulla Terra mi avevano probabilmente dato per spacciato. In effetti, era così. Senza le coordinate del campo base non sarei mai riuscito a impostare il viaggio di ritorno e, quindi, a tornare a casa.
“Possa la bandiera verde-blu del nostro pianeta sventolare in eterno sul Monte Olimpo.” Lo ammetto, non era proprio il massimo rispetto alle leggendarie parole di Armstrong, ma in fondo sono un’astronauta, mica un poeta. E in ogni caso, nessuno poteva sentirmi.
Non senza difficoltà, piantai l’asta in fibra di carbonio nello spesso strato di ghiaccio. Indietreggiai di qualche passo per osservarla bene, quindi mi guardai intorno, catturando diverse istantanee di quel paesaggio mozzafiato. E perché no, già che ci stavo mi scattai anche una foto con la bandiera alle spalle.
Avevo poco più di otto ore prima che l’ossigeno e la batteria del mio pressurizzatore si esaurissero. Un ultimo sguardo alla vetta, quindi mi incamminai nella direzione da cui ero venuto. Ero agli sgoccioli quando raggiunsi il mio KAR-97, il veicolo gommato su cui avrei percorso, alla mirabolante velocità di sei chilometri orari, il tragitto di ritorno verso l’astronave. Digitai il codice, lo stesso d’altronde che usavo sulla Terra per qualsiasi tipo di conto, e il portellone si aprì emettendo un rassicurante fischhh.
“Bentornato, Matteo,” mi salutò il computer di bordo, “Ti prego di confermare il tuo stato di salute fisica e mentale.”
“Sto bene,” risposi semplicemente, bloccando sul nascere la misura di emergenza che prevedeva l’avvio del pilota automatico. Che poi, se anche fossi impazzito di solitudine, glielo avrei forse detto?
Il tragitto di ritorno si rivelò più complicato del previsto. Un intero costone di roccia era venuto giù, bloccando parte dell’impervio sentiero che avevo percorso all’andata. Un altro imprevisto, piuttosto prevedibile a dire la verità, fu una colossale tempesta di sabbia che mi costrinse a parcheggiare il veicolo all’interno di una grotta.
Ci volle una settimana perché riuscissi a riprendere il viaggio. Per fortuna il generatore di ossigeno funzionava bene, e avevo ancora l’intera collezione dei film dei Fratelli Marx da vedere...
Trovai l’astronave esattamente dove l’avevo lasciata, ma parzialmente coperta da una duna di sabbia. Mi ci vollero due giorni per scavare tutta quella roba.
“Questo è un addio,” dissi a KAR-97 un attimo prima di uscire dal veicolo, non senza un pizzico di malinconia. La sua voce calma e pacata era stata la sola ad accompagnarmi in quei lunghi mesi di nulla.
“Addio, Matteo,” rispose il computer e poi, lasciandomi di stucco: “È stato un onore accompagnarti in questo viaggio.”
Quindi si spense, lasciandomi definitivamente solo. Raccolta l’attrezzatura, salii a bordo dell’astronave, liberandomi dell’ingombrante tuta spaziale. Preso posto nella cabina, iniziai il processo di accensione del velivolo, non prima però di essermi assicurato che tutto funzionasse a dovere. E fu allora che...
“Matteo - bzz - riesci a sentirci?”. Era Houston. Finalmente riuscivo a sentirli.
“Forte e chiaro, Houston. La missione è andata a buon fine”.
“Pensavamo - bzz - di averti perso! - bzz - Inviaci le tue coordinate”.
“Non sarà necessario. Vi sto trasmettendo le foto e il rapporto dettagliato della missione.”
“Non abbiamo - bzz - sentito bene - bzz. Inviaci le tue coordinate - bzz.”
Mi assicurai che il caricamento fosse completato, quindi interruppi la comunicazione. Ero stato solo per così tanto tempo, che  quella voce metallica adesso mi infastidiva.
In fin dei conti, tornare su un pianeta morente non era il massimo dell’ambizione. Calcolai che, con le pillole alimentari che avevo a disposizione, mi restavano ancora diciotto mesi di autonomia. Diciotto mesi durante i quali, se ero fortunato, mi sarei imbattuto in qualche asteroide. Ve lo immaginate? Primo uomo su Marte e su un asteroide senza nome. Lo avrei chiamato Hook, come il cane che avevo quand’ero piccolo.
Aprii il database del computer di bordo, selezionando “Luna” di Giovanni Allevi. Quindi, allacciate le cinte in grembo e alle ginocchia, avviai il velivolo. Il fragore del motore scosse il silenzio marziano. Poco più di un minuto ed ero già fuori dall’orbita del Pianeta Rosso.
Non sapevo dov’ero diretto e se mai ci sarei arrivato. La consapevolezza dell’ignoto investì la mia mente. Una sensazione quasi elettrica. Pensai che qualcosa di simile doveva averlo provato anche il mio lontano antenato preistorico. Il mio corpo e intelletto erano senz’altro più evoluti; potevo forse dire lo stesso del mio istinto?
Improvvisamente esausto, chiusi gli occhi, lasciandomi cullare dalle note del brano. Nel buio sconfinato dello spazio, mi addormentai. Felice come quand’ero bambino. Con le stelle a portata di sogno.


di Jason R. Forbus




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