Avevo raggiunto la vetta. Dopo lunghi mesi di scalata, ce l’avevo
finalmente fatta. Il momento a lungo sognato sulla Terra si era infine avverato.
Stentavo a crederci, eppure ero lì, sulla cresta del Monte Olimpo.
Sotto di me, ovunque volgessi lo sguardo, c’era lui: immenso, alto tre
volte l’Everest e con una superficie pari a quella dell’Italia, il vulcano si
elevava dalla superficie marziana come un pianeta a sé stante, una penisola
proiettata verso il gelido cosmo, più freddo, anche, dell’anidride carbonica
ghiacciata che ne copriva la cima.
Non esultai subito. Osservai a lungo l’orizzonte, miracolosamente nitido
quel giorno e sgombro dalle tempeste di sabbia che periodicamente squassano il
Pianeta Rosso. Quindi, un po’ goffamente per via della tuta, sollevai le
braccia in segno di trionfo. Nulla si mosse in quel mondo inanimato, e io mi
sentii piuttosto ridicolo.
Durante quei mesi, non avevo fatto altro che confermare quanto una sfilza
di robot prima di me aveva già scoperto, e in modo sicuramente più metodico e
accurato, ovvero: fatta eccezione per qualche forma di vita microbiale, su
Marte non c’era nulla per cui valesse la pena affrontare un viaggio così lungo.
Allora perché ero lì? Perché non c’è
altro luogo dove andare, continuavo a ripetermi. Ben misera consolazione
per uno che da bambino sognava di scoprire altre forme di vita intelligente,
“di fare la storia”.
A proposito di storia.
Correva l’anno 2030. Surriscaldamento globale. Sovrappopolazione. Scarsità
di risorse. Migrazioni di massa. Guerra, di un tipo mai visto prima, o forse
visto già troppe volte.
In questo panorama desolante, le nazioni industrializzate preferivano
spendere soldi per rinforzare i loro confini, contro cui si accalcavano milioni
di profughi disperati. Come me, anche loro non avevano altro luogo dove andare...
Volgere lo sguardo alle stelle era diventato un lusso d’altri tempi. Il
sistema solare più vicino, Alfa Centauri, distava “solo” 4,3 anni luce dalla
Terra, ma la tecnologia necessaria per raggiungere quella velocità era di gran
lunga più lontana.
Così si era deciso di mantenere la promessa fatta diversi anni prima, in
un’epoca più ottimista: portare l’uomo su Marte. Volevano un nuovo Neil
Armstrong, un nuovo sbarco sulla Luna. Chissà, forse avrebbe scoperto qualcosa
di interessante, risollevando lo spirito della razza umana, elevandola verso
nuove vette.
Fra tutti ero stato scelto io. Quoziente intellettivo superiore alla media,
anche fra i miei colleghi, e fisico da atleta. Avevo trascorso gli ultimi
dodici anni della mia vita preparandomi per quella missione. Avevo rinunciato
ad avere una relazione stabile, trascurato le amicizie, perfino la mia
famiglia. Credevo di essere un privilegiato. Solo in quel momento, in piedi sul
punto più alto dell’intero sistema solare e assordato da quel silenzio
straordinario, capii.
“Ho raggiunto la vetta dell’Olimpo alle ore 21:52 di Roma. Mattino
incredibilmente terso.” Anni di preparazione, per dire una banalità? Non
sapendo cos’altro dire, optai per il classico: “Houston, riesci a sentirmi?”.
Ma Houston non riusciva a sentirmi, questo lo sapevo bene. Il sistema di
comunicazione che avrebbe dovuto tenermi in contatto con la Terra aveva smezzo
di funzionare appena due giorni dopo il decollo. Avevo provato in tutti i modi,
ma non c’era stato verso. Sulla Terra mi avevano probabilmente dato per spacciato.
In effetti, era così. Senza le coordinate del campo base non sarei mai riuscito
a impostare il viaggio di ritorno e, quindi, a tornare a casa.
“Possa la bandiera verde-blu del nostro pianeta sventolare in eterno sul
Monte Olimpo.” Lo ammetto, non era proprio il massimo rispetto alle leggendarie
parole di Armstrong, ma in fondo sono un’astronauta, mica un poeta. E in ogni
caso, nessuno poteva sentirmi.
Non senza difficoltà, piantai l’asta in fibra di carbonio nello spesso
strato di ghiaccio. Indietreggiai di qualche passo per osservarla bene, quindi
mi guardai intorno, catturando diverse istantanee di quel paesaggio mozzafiato.
E perché no, già che ci stavo mi scattai anche una foto con la bandiera alle
spalle.
Avevo poco più di otto ore prima che l’ossigeno e la batteria del mio
pressurizzatore si esaurissero. Un ultimo sguardo alla vetta, quindi mi
incamminai nella direzione da cui ero venuto. Ero agli sgoccioli quando
raggiunsi il mio KAR-97, il veicolo gommato su cui avrei percorso, alla
mirabolante velocità di sei chilometri orari, il tragitto di ritorno verso
l’astronave. Digitai il codice, lo stesso d’altronde che usavo sulla Terra per qualsiasi
tipo di conto, e il portellone si aprì emettendo un rassicurante fischhh.
“Bentornato, Matteo,” mi salutò il computer di bordo, “Ti prego di
confermare il tuo stato di salute fisica e mentale.”
“Sto bene,” risposi semplicemente, bloccando sul nascere la misura di
emergenza che prevedeva l’avvio del pilota automatico. Che poi, se anche fossi
impazzito di solitudine, glielo avrei forse detto?
Il tragitto di ritorno si rivelò più complicato del previsto. Un intero
costone di roccia era venuto giù, bloccando parte dell’impervio sentiero che
avevo percorso all’andata. Un altro imprevisto, piuttosto prevedibile a dire la
verità, fu una colossale tempesta di sabbia che mi costrinse a parcheggiare il
veicolo all’interno di una grotta.
Ci volle una settimana perché riuscissi a riprendere il viaggio. Per
fortuna il generatore di ossigeno funzionava bene, e avevo ancora l’intera
collezione dei film dei Fratelli Marx da vedere...
Trovai l’astronave esattamente dove l’avevo lasciata, ma parzialmente
coperta da una duna di sabbia. Mi ci vollero due giorni per scavare tutta
quella roba.
“Questo è un addio,” dissi a KAR-97 un attimo prima di uscire dal veicolo,
non senza un pizzico di malinconia. La sua voce calma e pacata era stata la
sola ad accompagnarmi in quei lunghi mesi di nulla.
“Addio, Matteo,” rispose il computer e poi, lasciandomi di stucco: “È stato
un onore accompagnarti in questo viaggio.”
Quindi si spense, lasciandomi definitivamente solo. Raccolta l’attrezzatura,
salii a bordo dell’astronave, liberandomi dell’ingombrante tuta spaziale. Preso posto nella cabina, iniziai il processo di
accensione del velivolo, non prima però di essermi assicurato che tutto
funzionasse a dovere. E fu allora che...
“Matteo - bzz - riesci a
sentirci?”. Era Houston. Finalmente riuscivo a sentirli.
“Forte e chiaro, Houston. La missione è andata a buon fine”.
“Pensavamo - bzz - di averti
perso! - bzz - Inviaci le tue
coordinate”.
“Non sarà necessario. Vi sto trasmettendo le foto e il rapporto dettagliato
della missione.”
“Non abbiamo - bzz - sentito bene
- bzz. Inviaci le tue coordinate - bzz.”
Mi assicurai che il caricamento fosse completato, quindi interruppi la
comunicazione. Ero stato solo per così tanto tempo, che quella voce
metallica adesso mi infastidiva.
In fin dei conti, tornare su un pianeta morente non era il massimo
dell’ambizione. Calcolai che, con le pillole alimentari che avevo a
disposizione, mi restavano ancora diciotto mesi di autonomia. Diciotto mesi
durante i quali, se ero fortunato, mi sarei imbattuto in qualche asteroide. Ve
lo immaginate? Primo uomo su Marte e su un asteroide senza nome. Lo avrei
chiamato Hook, come il cane che avevo quand’ero piccolo.
Aprii il database del computer di bordo, selezionando “Luna” di Giovanni
Allevi. Quindi, allacciate le cinte in grembo e alle ginocchia, avviai il
velivolo. Il fragore del motore scosse il silenzio marziano. Poco più di un
minuto ed ero già fuori dall’orbita del Pianeta Rosso.
Non sapevo dov’ero diretto e se mai ci sarei arrivato. La consapevolezza
dell’ignoto investì la mia mente. Una sensazione quasi elettrica. Pensai che
qualcosa di simile doveva averlo provato anche il mio lontano antenato
preistorico. Il mio corpo e intelletto erano senz’altro più evoluti; potevo
forse dire lo stesso del mio istinto?
Improvvisamente esausto, chiusi gli occhi, lasciandomi cullare dalle note
del brano. Nel buio sconfinato dello spazio, mi addormentai. Felice come
quand’ero bambino. Con le stelle a portata di sogno.
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