giovedì 1 ottobre 2015

Il Sogno della Madre

«Ho avvertito un tonfo, stanotte. È stato il rumore che ha fatto il mio cuore quando è precipitato dalle stelle. È affondato nel mare; l’ho sentito alla radio. Il suo nome era Hichem, ed era mio figlio.
«Vorrei raccontarvi la sua storia. Non la storia strappalacrime di un ragazzo partito per sfuggire alla fame, alla guerra, alla malattia. Senz’altro c’è stato anche questo, ma non solo. Perché quando sei giovane ragioni in modo strano e ti sembra che tutto sia possibile.
«Il patetico lasciamolo ad altri: mio figlio era un sognatore».

«La naturale conseguenza dei sogni dissipati in vita, è il ritrovarli compiuti nella morte».

«Chi ha parlato? Hichem, sei tu? Non vedo nulla».

«Non importa vedere ma sentire».

«Ecco, adesso ti riconosco: perso fra le nuvole alla ricerca di chissà quale paradiso. Quante volte avrei voluto farti scendere sulla terra. Quella terra che, in fin dei conti, hai sempre abbracciato dall’alto e che più di altri ti è appartenuta».

«Nulla ci appartiene».

«Che cosa mi dici allora degli abiti che indossiamo, del nostro nome?».

«Ti dico che sono qui, nudo, e non ricordo chi sono. Non ricordo chi sei tu che mi stai parlando, chiamandomi per nome – uno dei tanti, in fin dei conti, su quella barca.
«Nulla, ti dico, ci appartiene».

«Ecco, almeno questo sogno, almeno questo può appartenermi. Voglio crederlo e voglio anche che tu ricordi».

«D’accordo, mamma. Che cosa vuoi sapere? Vuoi sapere dei tremila dollari che ho consegnato al traghettatore?».

«Questo e molto di più».

«C’è da dire che i morti viaggiano meglio. Si viaggia sempre meglio quando non bisogna bere, mangiare e fare i propri bisogni. A noi mancava tutto. Solo la paura non ci mancava. Ci teneva per la gola, impedendoci di saltare in acqua».

«Paura, tu?».

«Sì. Perché questa oscurità è di gran lunga preferibile alla notte dell’anima. Il mio tramonto giunse al mattino, quando buttarono in mare il corpo senza vita di quella bambina. Aveva il tutù rosa e le scarpe da ballerina».

«Adesso basta, non voglio più sentire».

«Non puoi smettere di sentire, nemmeno da morto. E io sono fra quelli che c’è l’ha fatta».

«Tu... tu sei vivo?».

«Non confonderti. Piuttosto, parliamo degli sguardi».

«Gli sguardi?».

«Quelli che ti butta la gente addosso, scambiandoti per un cassone dell’immondizia. Così, accatastato ai lati della strada come un sacco ricolmo di sogni usa e getta. È la bella società, mamma, quella che guardavamo alla televisione del campo; quella sfolgorante di luce e fumo che abbagliano».

«Così è per questo, figlio mio, che sei partito? Per inseguire un’illusione?».

«Lascio che siano altri a deciderlo. Io mi accontentavo di vendere un accendino al semaforo e di raggranellare qualche spiccio per mangiare. Si contrattava sul prezzo di ogni cosa, fino all’ultima goccia. Poi li vedevi dissanguarsi in qualche ristorante alla moda».

«La gente è uguale dappertutto. È la situazione a renderci migliori o peggiori».

«È così, è vero. La diversità è un frutto che cresce spontaneo in natura; a renderlo dolce od amaro ci pensano gli uomini».

«Certo non sarai rimasto a lungo accanto a quel semaforo».

«Avrei fatto bene a restarci e invece sono caduto in trappola. Vendendo un sacchetto di droga riesci anche a pagarti un posto letto.
«Non piangere, mamma...».

«È il mio sogno, ricordi? Posso decidere di non farlo. E poi, non puoi vedermi, puoi solo sentirmi».

«È proprio questo il punto.

 >> Si leva un vento che presto si smorza. <<

«Il destino sa essere crudele quando ci si mette. Avevo comprato un’illusione, pagandola con tutti i miei risparmi, per finire a vendere illusioni – sabbia nel deserto. Da me veniva gente di tutte le età e di tutti i tipi. Un grammo, due grammi... A volte pensavo: e se la vita stessa non fosse che un’unica, grande illusione, distribuita a grammi? Attimi di euforia, attimi di niente».

«La pace dell’anima, figlio mio, solo a quella puoi appellarti».

«Ma la mia era affogata in mare, ricordi? Così volli provarla, quella polvere bianca. Un grammo, due grammi... Una volta assaggiata la felicità è difficile tornare indietro. Dopo tutto, è più facile comprarsi un’illusione che costruire un sogno. E quella polvere mi proteggeva dagli sguardi. Presto scomparvero; ogni cosa, io stesso, scomparvi».

>> Una luce abbagliante inonda lo spazio.
La luce è talmente forte che madre e figlio si coprono gli occhi,
finendo per non vedersi.
Quindi torna l’oscurità. <<

«Avevo promesso a questi signori che la tua non sarebbe stata una storia strappalacrime».

«Non esistono lacrime nel vuoto...».

«... e nel mio sogno. Allora perché non la racconti giusta, la storia?».

>> La madre comincia a piangere sommessamente. <<

«Va bene, mamma...
«Non ho spacciato per molto tempo. Quando ho toccato il fondo, sono stato arrestato. Invece di rispedirmi indietro, mi hanno affidato a un centro di recupero. La vita in carcere era dura ma c’erano altri come me e soprattutto, c’era chi la pace dell’anima l’aveva ed era prodigo nel distribuirla. Settimana dopo settimana, tiravo su l’ancora. E la mia barca cominciò a muoversi, finalmente, a seguire la rotta giusta.
«Così ho conosciuto Michela, una brava ragazza. Ci frequentiamo da un po’ e chissà, se al ristorante dove lavoro mi offrissero un contratto decente, forse potremmo sposarci. Allora organizzeremmo una grande festa. Ci sarebbero tutte e due le famiglie, tutti riuniti ad assaggiare frutti diversi. Perché l’albero della vita ne è prodigo. Questo, mamma, lo so. Ora lo capisco».

«Bravo, figlio mio, bravo... Ve l’avevo detto: mio figlio è un sognatore.
«Vieni qui, piccolo mio, lasciati abbracciare».

>> Buio e luce si mescolano.
Vediamo un bambino che corre ad abbracciare la madre.
La loro gioia è più vera delle stelle, più sconfinata dell’universo.
Poi il sogno si dissolve.
Ma la sua scia, nel cielo dei giorni, permane. <<




di J.R. Forbus

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