domenica 27 novembre 2016

Il Tramonto di Sebastiano

Napoli, 1 settembre 1764

La camera da letto giace nella penombra. Solo una lama di luce taglia il pavimento, avventurandosi ai piedi di uno scrittoio. Su di esso una montagnola di fogli, moltissimi scarabocchiati, feti di capolavori in paziente attesa.
Ma il creatore dorme e non accenna a svegliarsi. Stanco sotto il peso degli anni, in quel letto sempre più grande e ostile.
“Cavaliere, si svegli… Cavaliere…”
Una voce e una mano giungono a tormentarlo, obbligandolo ad aprire gli occhi: è Placido, l’esuberante allievo siciliano, con un piede nell’arte e l’altro nella Napoli che conta. Il ragazzo ha capito che l’artista non vive di soli quadri, ma di inchini, saluti e conoscenze. Quelle in grado di procurarti una commissione importante, come affrescare l’interno di una basilica, o ritrarre qualche nobile o…
“Cavaliere, Monsignor Mauri ha confermato l’appuntamento per quest’oggi. E la Duchessa di Parma, in visita dal Principe di Torre Annunziata, gradirebbe conoscerla. Credo per un ritratto. E poi c’è l’affare del Santuario di Pozzano, e…”
“Acqua”, riuscì a dire, inseguendo le parole come un’oasi nel deserto.
“Acqua” ripeté scioccamente Placido, poi uscì velocemente dalla stanza per rientrare l’istante dopo con una brocca piena e una coppa.
“Beva, Cavaliere, e perdoni se l’ho svegliata, ma i preparativi per tanti e nobili ospiti sono molti e...”
Con un gesto della mano, il maestro fece cenno che non importava, impossibile dire se si riferisse all’offesa del brusco risveglio o ai tanti e nobili ospiti che stavano per aggredire il suo giorno.
Prese la coppa che gli veniva offerta finendola in due lunghi sorsi, quindi invitò Placido a versargli altra acqua, e il suono cristallino del liquido gli parve la melodia più bella che avesse mai udito.
“Ha molta sete, stamane…”
Il maestro si asciugò la barba dalle gocce d’acqua che la imperlavano. Scostò le lenzuola e posò il primo piede a terra. La fatica gli costò un sospiro. Placido gli porse prontamente il braccio, e così riuscì a tirarsi in piedi.
La giornata si prospettava interminabile, e non solo per i molti e sgraditi ospiti: uomini e donne che erano tutto fuorché interessati all’arte. In realtà, ciò che bramavano era il nome, il suo; accaparrarsi un’opera di Sebastiano Conca, non importa quale e di che grandezza, avrebbe procurato prestigio alla famiglia di turno.
Nei suoi oltre cinquant’anni di carriera aveva lavorato per conto di Papi, Principi e Principesse. Tanta e tale la sua abilità, da meritargli il titolo di “Cavaliere”, che non aveva esitato a sfruttare, in un’altra epoca della sua vita, per aprire porte e portoni. Sempre, si diceva, in nome dell’arte, per ritagliarsi gli spazi necessari alla sperimentazione.
Vanità, ecco di che si era trattato realmente, da vecchio se ne rendeva conto, nella sua grande e bella casa di Napoli, negli abiti eleganti che indossava spesso e senza bisogno.
Ma non più. Qualcosa in lui era cambiato. Già da qualche giorno, ma oggi avvertiva una rottura definitiva, la stessa identica sensazione che in passato lo aveva indotto ad abbandonare opere altrimenti finite.
C’era, in lui, una strana stanchezza non solo nelle membra ma per le cose. Le pareti della stanza gli sembravano quelle di una prigione. Il tragitto dalla camera alla sala da pranzo interminabile e tedioso. Le cose non migliorarono durante la colazione: praticamente non toccò cibo. Una volta in studio, guardò a malapena i suoi due ultimi quadri finiti, uno dei quali già acquistato dai Reali di Spagna, una Madonna con Bambino che rifulgeva della luce Rococò che aveva caratterizzato quei suoi ultimi anni napoletani.
“Cavaliere, desidero mostrarle il mio ultimo lavoro: una Maddalena a immagine della nostra brava cuoca Francesca.”
L’anziano maestro guardò il dipinto: magistralmente eseguito, e in altra disposizione d’animo senz’altro degno di ammirazione.
“Lavoro superbo, nulla da dire” e facendo correre le dita lungo i bordi della tela, “Il tuo apprendistato finisce oggi.”
Quelle parole, attese ormai da anni, tramortirono Placido: “Cavaliere, lei mi fa un grande onore…”
“Nessun onore. Se non ricordo male, desideri ritornare in Sicilia. Scriverò per te una lettera indirizzata ad alcune mie conoscenze. In questo modo avrai di che lavorare, al tuo arrivo.”
“Moltissime grazie, Cavaliere!”
“E basta chiamarmi ‘Cavaliere’: la parola è vecchia, forse più di me. Manda a dire ai nostri illustri ospiti che li riceverò questo pomeriggio alle quattro.”
Ancora scosso dalla notizia, Placido prese commiato dal maestro e corse via, affidando a due servi l’incarico di recapitare il messaggio, e recandosi egli stesso dalla Duchessa, donna che sapeva bellissima.
Finalmente solo, Sebastiano scrisse innanzitutto tre lettere, più o meno uguali ma indirizzate a persone differenti, notabili siciliani che avrebbero aiutato Placido a farsi un nome. Quindi, libero da altre incombenze, sprofondò nella sedia su cui amava meditare, fra un lavoro e un altro, e su cui aveva concepito alcune delle sue opere migliori.
Chiuse gli occhi, pronto ad accogliere il mondo brulicante dei suoi ricordi. Stranamente, non rivide nessuno dei personaggi piccoli e grandi che aveva incontrato nell’arco della sua lunga vita. Nessun castello, o chiesa o palazzo gli aprì le porte. Niente di tutto questo.
Rivide invece una strada: stretta e in terra battuta, saliva serpeggiando sul crinale di una collina. Lassù a metà cammino c’era una casa, graziosa nella sua semplicità, così lontana dagli sfarzi in cui aveva vissuto. Quella era la sua casa ancestrale, il luogo ove era nato e cresciuto. Si rivide, bambino, scendere la collina verso il rigoglioso bosco di lecci poco più a nord, che con le sue folte dita sfiorava la splendida spiaggia di Sant’Agostino. Lì amava trascorrere il lungo tempo dei sogni, abbozzando sulla sabbia il profilo delle onde, gabbiani, lontane barche di pescatori… Così impegnava il tempo, o era il tempo a impegnare lui.
Un mattino particolarmente ispirato, il piccolo Sebastiano non si era accontentato di fare e disfare i soliti disegni ma, armato di tinte naturali con cui colorare la sabbia, si era messo in testa di creare un vero e proprio “dipinto”: non sapeva ancora che cosa avrebbe ritratto, ma era ostinato a farlo. Un buon primo passo per qualsiasi artista in erba.
Come prima cosa, impastò sabbia e tinte insieme, ricavandone diversi colori: bianco, giallo, arancione, rosso, viola, blu, nero. Ma cosa ritrarre? Se ne stava così occupato a meditare, lo sguardo perso sulla sabbia, quando vide dei piedi nudi avvicinarsi: era una donna, bella e un po’ selvaggia, con lunghissimi capelli neri, occhi verde smeraldo e pallida come la luna. Vestiva un lungo abito blu notte e piuttosto sgualcito. Doveva venire dal mare, perché sia i capelli che l’abito gocciolavano vistosamente. Nonostante l’aspetto un po’ dimesso, la donna era circondata da una strana aura, che indusse Sebastiano ad alzarsi in piedi, i pugni ancora serrati sulla sabbia che faceva scivolare, lentamente, ricreando l’eterno fluire del tempo.
La donna si fermò a una certa distanza da lui e rimase a osservarlo. Sebastiano non sapeva dire quanto tempo trascorse in quel modo, ma dopo un po’, guardando a terra, si accorse di aver completato il suo ritratto: era lei, quella donna, che lo guardava con straordinaria intensità attraverso due incandescenti occhi di sabbia.
Il tempo di rialzare lo sguardo e la signora era sparita. C’erano delle orme che, lente, conducevano nel bosco. Sebastiano la seguì, senza capirne il motivo ma sentendosi attratto dall’inevitabile richiamo del destino.
Giunse al cospetto di cinque lecci aggrovigliati, e che l’ingegno dell’uomo avevano modellato in un’accogliente capanna. Dopo un attimo di esitazione, Sebastiano valicò la porticina socchiusa.
All’interno, nella semioscurità della sua camera da letto, vide se stesso, vecchio e minuto sull’ampio letto a baldacchino che aveva accolto la misura della sua gloria mortale. C’era Placido, e il Monsignore, e la Duchessa di Parma, e altri volti che non distingueva nell’ombra. Ma soprattutto, all’angolo della stanza, non vista da nessuno, c’era lei. Immutata, con ai piedi una pozza d’acqua che, goccia dopo goccia, si faceva sempre più grande.
“Sei tornato” gli disse sorridendo uno strano e mesto sorriso.
“Sì” le rispose il bambino, accettando la mano soffice e bagnata che la signora gli porgeva e che già una volta, all’inizio del suo cammino, aveva toccato.
“Vieni, ti mostrerò il tesoro di cui ti parlai quel giorno.”
La porta della stanza si aprì, rivelando un tramonto di straordinaria bellezza, il sole che lento si immergeva nel mare, striando il cielo di mille colori, creando meravigliosi giochi di luce fra le dune sabbiose.
Quella era la spiaggia della sua giovinezza, sulla cui riva aveva collezionato sogni come conchiglie e costruito, granello dopo granello, il castello della propria vita. Che adesso fluiva via, come sabbia che scivola fra le mani, ritornando al più grande tesoro del creato.
Sebastiano chiuse gli occhi, lasciandosi rapire dall’infinito.
E fu il più ricco degli uomini.


dedicato a Sebastiano Conca, illustre pittore di Gaeta, la cui casa ancestrale è tuttoggi visibile sulla collina prospiciente la Spiaggia di Sant’Agostino

racconto primo classificato all'edizione 2016 del Premio Dragut, tema "Tesori Nascosti"


la motivazione del premio

Alessandro il Grande nel Tempio di Gerusalemme, Sebastiano Conca

Antonio Ciano

L'anello per l'asino; quando ero piccolo ce n'erano ancora molti in Via Indipendenza...

L'antico pozzo
Antonio Ciano e Jason Forbus
  

veduta dalla casa di Sebastiano Conca


"Il sentiero" del racconto


Iscrizione fuori la cappella della casa di Sebastiano Conca

Jason Forbus presso la casa di Sebastiano Conca


Nota: Il celebre pittore morì a Gaeta, secondo alcune testimonianze rinvenute presso il santuario dell'Annunziata probabilmente di colera. Fonte: Antonio Cervone in Gazzetta di Gaeta 1980, II, 17

2 commenti:

  1. Conosco quella casa per averla misurata palmo palmo per un esame di restauro conservativo all'università. Era verso la fine degli anni 70 ed era disabitata!

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