Per questo teatrino dei sogni c'è un solo biglietto: l'andata. Perché più che un luogo è il luogo. Siamo o no teatranti e spettatori gli uni dell'esistenza altrui?
C'è la primadonna, sempre lì a imbellettarsi di fronte a uno specchio che non ha riflesso né rifletterà mai la sua anima;
c'è il protagonista, che è apparso solo fugacemente nello spettacolo della sua vita;
c'è la spalla comica che, come un ubriacone, ride per dimenticare;
c'è quello che muore sempre, l'amico di tutti insomma;
ci sono i figuranti, pronti a fregarti per un alito di gloria;
c'è chi stacca i biglietti, ma per sé non l'ha fatto mai;
ma c'è, soprattutto, lo scopino.
Lui, un vecchietto ricurvo che invidia la fiera rigidità della sua fedele scopa.
Al calar del sipario lo vedi là, perso tra i filari di poltroncine a spazzare le mille emozioni, le mille parole che abbiamo pensato, prodotto, consumato e gettato via. L'ennesima giornata, l'ennesimo spettacolo.
Lo sgabuzzino dello scopino è una specie di camerino stracolmo di pezze, secchi e sacchi.
Qui, nel buio della sua piccola vita, lo scopino rimesta tutte le cartacce in un secchio nero e profondo come il calderone di una strega. Poi gli dà fuoco.
All'improvviso, una luce strana risplende dalla profondità del secchio, illuminando il volto rugoso del vecchio scopino. Perché è sempre e solo nel silenzio che la magia accade.
Così le parole, le emozioni scartate dalla folla, i frammenti di una vita si uniscono a un'altra vita, intrecciandosi, separandosi, confondendosi. Nascono storie, altre muoiono tra i fischi ma lo spettacolo, signore e signori, deve pur andare avanti.
Quando il secchio esaurisce il suo sole, quando il fuoco si spegne, lo scopino ripone quell'orribile casacca d'ordinanza e sguscia fuori dallo sgabuzzino.
Di ritorno a casa è di ritorno a un'infinitesimale realtà del vissuto. I suoi occhi stanchi lo sanno.
Nel buio della notte, il suo cuore è colmo di luce.
- di Jason Ray Forbus
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