Nella casa del Padrone
venni a rendere le messi.
Mi accolse il corvo sull’uscio della
casa
con quel suo papillon presuntuoso
e toccò pulirsi della vita da sotto gli
scarponi.
Morto, ma con le scarpe pulite
misi piede nel lungo corridoio delle
facce di tela.
E camminai, lento
su quel lunghissimo tappeto
che i loro padri stesero sulle ossa dei
miei padri.
Giunti al bivio,
risa di donna e dame spettrali
vidi attraversare le pareti.
È tardi, disse il corvo
è tardi.
Perché c’era festa a casa del Padrone.
Già udivo la musica e i passi di una
lugubre danza
negare la sacralità della notte.
Mi fecero dunque entrare nella stanza
dell’orologio:
segnava l’ora della resa delle messi.
Abbassai reverente il capo,
così come mi era stato detto di fare
il giorno in cui mi rubarono il gioco e
la parola.
Ma a chi mi inchinavo?
Strano che in tutti quegli anni grigi
non mi fossi mai accorto
che il Padrone non c’era né c’era mai
stato.
C’erano solo due corvi,
lì nella stanza dell’orologio.
Sembravano spaventati e famelici,
vittime e carnefici di un gioco vecchio
come quella casa.
Io li guardai.
Loro mi guardarono.
Allora cantai il mio sermone nero,
del dolore e della rabbia di una vita
perduta
e un attimo dopo udii le fondamenta
scricchiolare
e i pilastri, fra tanto inutile
gracchiare, crollare.
Perché il tetto rovinò sui corvi, sull’orologio,
sulle dame
e su tutta quella tetra cattedrale.
E io, io che ero andato per rendere le
messi
ripresi la via di casa con
un canto.di J.R. Forbus
E' come un tuffo da molto in alto... riesco ad immaginare quella cattedrale molto bene.
RispondiEliminaComplimenti Jason.
... spetta a noi far sentire l'eco dei nostri passi. Grazie per leggere, Antonella!
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